Codice Penale art. 337 - Resistenza a un pubblico ufficiale 1 .

Pierluigi Di Stefano

Resistenza a un pubblico ufficiale 1.

[I]. Chiunque usa violenza o minaccia per opporsi a un pubblico ufficiale [357] o ad un incaricato di un pubblico servizio [358], mentre compie un atto di ufficio o di servizio, o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni [339].

[II]. Se la violenza o minaccia è posta in essere per opporsi a un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza mentre compie un atto di ufficio, la pena è aumentata fino alla metà.2

competenza: Trib. monocratico

arresto: facoltativo

fermo: non consentito

custodia cautelare in carcere: consentita

altre misure cautelari personali: consentite

procedibilità: d'ufficio

[1] Per una causa di non punibilità, v. l'art. 393 bis, inserito dall'art. 1, comma 9, l. 15 luglio 2009, n. 94. Precedentemente analoga disposizione era contenuta nell'art. 4 d.lg.lt. 14 settembre 1944, n. 288 (ora abrogata dall'art. 1, comma 10, l. n. 94 cit.), che così disponeva: «4. Non si applicano le disposizioni degli articoli 336, 337, 338, 339, 341, 342, 343 del codice penale quando il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbia dato causa al fatto preveduto negli stessi articoli, eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni».

[2] Comma aggiunto dall'art. 19, comma 1, lett. b), d.l. 11 aprile 2025, n. 48, in corso di conversione in legge.

Inquadramento

L'interesse protetto sostanzialmente corrisponde (anche qui, quindi, duplice) al medesimo della norma (art. 336) che precede, al cui commento si rinvia. La diversità di condotta consiste nel diverso momento in cui si pone la coartazione della azione del pubblico ufficiale: nel reato precedente tale coartazione riguarda la fase di formazione della volontà, in questo reato riguarda la fase di esecuzione della stessa.

La identità della pena edittale rappresenta un ulteriore indice della sostanziale corrispondenza dell'interesse protetto nei due casi.

In conclusione, l'art. 337 tutela l'amministrazione nel momento di attuazione dei suoi provvedimenti.

A fronte della sostanziale corrispondenza di interessi, la condotta nella ipotesi di resistenza presenta delle differenze: nel reato di cui all'art. 336, l'azione è tesa ad imporre un facere al pubblico ufficiale mentre, nel caso dell'art. 337, è sufficiente rendere materialmente difficile il compimento dell'atto. In conseguenza, non vi è necessità di una vera e propria coartazione.

Ciò trova un chiarimento in dottrina che afferma che il reato non si caratterizza necessariamente per la violenza intesa quale “violenza assoluta”; l'uso del termine “opporsi” dimostra che il reato è integrato da “qualsiasi frapposizione di ostacoli che influisca negativamente sulla libertà di movimento del pubblico funzionario” (Fiandaca-Musco, PS I).

I soggetti

Si tratta di un reato comune, come si evince dall'utilizzo del termine chiunque per indicarne il soggetto agente. Destinatari della condotta sono sia i pubblici ufficiali che gli incaricati di pubblico servizio e, inoltre, i soggetti chiamati per assistenza alla esecuzione della attività (es. il fabbro incaricato della rimozione degli ostacoli per la perquisizione).

Materialità

Il delitto è di mera condotta assistita da dolo specifico e si consuma indipendentemente dal raggiungimento dello scopo prefissatosi dal reo.

La condotta penalmente rilevante è rappresentata da qualunque attività commissiva od omissiva che si traduca in un atteggiamento, anche solo implicito, purché percepibile dal pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, che in qualsiasi modo impedisca, intralci, valga a compromettere, anche solo parzialmente e temporaneamente, la regolarità del compimento dell'atto di ufficio o di servizio. Non rileva, invece, che l'atto di ufficio possa comunque essere eseguito (Cass. VI, n. 5459/2020Cass. VI n. 5147/2014). Tali decisioni, difatti, precisano, ”indipendentemente dall'esito positivo o negativo di tale azione e dall'effettivo verificarsi di un impedimento che ostacoli il compimento degli atti predetti”.

La norma indubbiamente offre una tutela anticipata alla legittima azione del pubblico ufficiale ma la fattispecie concreta non può essere valutata in una prospettiva di pericolo presunto, occorrendo che la violenza e la minaccia (elementi costitutivi della materialità del reato, orientati) siano reali e abbiano effettiva idoneità a coartare o ad ostacolare l'agire del pubblico ufficiale. In tale modo diviene possibile ricostruire il finalismo dell'azione, ovvero il dolo specifico che deve caratterizzare il soggetto agente. Il dubbio si pone nei frequenti casi, tipici i controlli stradali, in cui il privato manifesti “scontentezza”, con espressioni anche di violenza verbale, contro l'azione dell'ufficiale; il finalismo dovrà quindi essere attentamente individuato (Cass. VI, n. 36367/2013).

La attitudine oggettiva della condotta va valutata anche secondo il momento in cui la condotta si pone e il reato non dovrebbe essere configurabile laddove l’atto sia stato compiuto e non possa, quindi, esservi alcuna finalità di opposizione (Cass. VI, n. 8340/2010); il tema, però, è più complesso, rinviandosi ai “Rapporti tra le fattispecie di cui agli artt. 336 e 337” nel commento all’articolo che precede.

Atto d'ufficio

Il reato non si perfeziona in ragione della sola qualifica soggettiva della vittima, occorrendo sempre individuare quale sia l'atto d'ufficio al quale l'agente ha ritenuto di opporsi restando quindi esclusa la generica aggressività nei confronti di pubblici ufficiali o la prosecuzione della aggressione iniziata per diverse ragioni, pur quanto la vittima si qualifichi poi, ad es., come carabiniere (Cass. VI, n. 42505/2012).

L'atto di ufficio cui la disposizione fa riferimento non ha alcuna particolare caratterizzazione, non deve essere necessariamente un atto autoritativo e vi rientra qualsiasi atto realizzato dal pubblico ufficiale in attuazione del dovere generico di svolgere la propria attività nel modo più efficace per il conseguimento dei fini dell'ufficio (Cass. VI, n. 30770/2012).

La considerazione che l'atto di ufficio sia qualsiasi atto che l'ufficiale ritenga di compiere per l'adeguata esecuzione delle proprie attività di istituto, amplia la possibilità che il reato ricorra in qualsiasi ipotesi di intervento del personale delle forze dell'ordine da ritenere in “servizio permanente”. Diversa la situazione, invece, quando si tratti di soggetti che, come gli agenti della polizia municipale, se fuori servizio non hanno la qualità di agenti di polizia giudiziaria, sicché gli atti da loro compiuti in tale contesto non sono qualificabili come atti di ufficio (Cass.VI  n. 39920/2014). Il tema verrà meglio sviluppato nella trattazione delle figure del pubblico ufficiale e dell'incaricato di pubblico servizio,

Reati concorrenti

Come per il reato di cui all'art. 336, valgono le regole comuni in materia di reati nella cui condotta di base vi siano l'esercizio di violenza o minaccia: quest'ultima è, di norma, assorbita (Cass. VI, n. 15070/2012) mentre la violenza risulta assorbita solo se si non supera la soglia del reato di percosse (Cass. VI, n. 26174/2012). In tale ultimo caso, per il reato di lesioni sussiste l'aggravante della connessione teleologica, a nulla rilevando che reato-mezzo e reato-fine siano integrati dalla stessa condotta materiale (Cass. IV, n. 32703/2014). 

Questione dibattuta riguarda, in caso di concorso con il reato di lesioni,  l’applicabilità per quest’ultimo reato dell’aggravante ex art. 576, comma 1, n. 5-bis,  consistente nella commissione del fatto nei confronti di un ufficiale o agente di P.G. o di P.S., nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni o del servizio; si è affermato sia (Cass. VI, n. 2608/2022; Cass.. VI, 19262/2022)  che l’aggravante in tale caso opera perché il disvalore delle lesioni cagionate al p.u.  non è assorbito dal reato in esame, sia  (Cass. VI, n. 54424/2018) la tesi opposta, ovvero che non è applicabile poiché vi è piena sovrapponibilità con il fatto che costituisce il reato di cui all’art. 337 o 336.

In precedenza, la giurisprudenza aveva dato risposte diversificate quanto alla ricorrenza della analoga aggravante di cui all'art. 61 n. 10 (commissione del fatto contro il pubblico ufficiale od incaricato di pubblico servizio), in un caso ritenendo che la aggravante ricorra (Cass. VI, n. 24554/2013) e, in altri due, che invece l'aggravante sia assorbita quale elemento costitutivo del reato di resistenza (Cass. V, 25533/2015  e Cass. VI, n. 11780/2010).

Vi è un'ampia casistica di condotte che costituiscono, oltre al reato di resistenza, anche altri reati; il più delle volte la soluzione offerta è nel senso della sussistenza del concorso formale piuttosto che della specialità:

Il reato di resistenza a pubblico ufficiale concorre con il reato di rapina impropria (Cass. VI, n. 51576/2016) quando la condotta mirata alla impunità corrisponda a quella di impedimento dell'attività di istituto; concorre con il favoreggiamento personale nel caso in cui l'aiuto al ricercato si risolva nell'uso della violenza o minaccia al pubblico ufficiale (Cass. VI, n. 32852/2009); concorre anche con il reato di cui all'art. 651 la cui condotta, peraltro, è completamente diversa (Cass. VI, n. 39227/2013) e, quindi, non è commessa con la stessa azione di opposizione/violenza; concorre con la istigazione aggravata di militari a disobbedire alle leggi (art. 266) per la diversità dei beni giuridici (P.A. e personalità dello Stato) (Cass. S.U., n. 18621/2017).

L'ipotesi dell'art. 337 e quella di cui all'art. 6-bis, comma 1, l. n. 401/1989, concorrono in quanto si tratta di ipotesi di reato strutturalmente ben diverse atteso che, mentre la prima contempla atti di violenza e minaccia diretti ad opporsi a un atto di un pubblico ufficiale o di un incaricato di un pubblico servizio, la seconda punisce il fatto di lanciare corpi contundenti o altri oggetti in modo da creare un pericolo per le persone, nei luoghi ove si svolgono manifestazioni sportive (Cass. VI,  n. 39454/2003); le stesse condotte, quindi, offendono i vari beni protetti dalle due disposizioni.

Il rapporto con altri reati rileva non solo per profili di assorbimento o meno, ma anche per la particolarità del reato, che è integrato anche da una azione genericamente “oppositiva”; si deve, quindi, fare riferimento ad una chiara ricostruzione del dolo specifico e si pone il tema della qualificazione della condotta che, pur aggressiva e minacciosa, non sia però finalizzata ad intralciare il compimento dell'atto. In tale casi la volgarità ingiuriosa, l' atteggiamento genericamente minaccioso, la “.... manifestazione di disprezzo e di disistima, diretta a ledere l'onore e il prestigio del pubblico ufficiale medesimo” senza la finalità di impedire od ostacolare l'attività potranno eventualmente integrare altri reati — ingiuria/oltraggio, minaccia, etc — ma non il reato in questione (Cass. VI,  n. 23684/2015; Cass. n. 2716/1997).

LaCass. VI, n. 39980/2018 rileva che i reati di oltraggio e resistenza possono comunque concorrere anche qualora la condotta offensiva sia finalizzata allo scopo di opporsi all'azione del pubblico ufficiale, in quanto la condotta ingiuriosa non è elemento costitutivo del reato previsto dall'art. 337”.

Rapporto con l'art. 336 c.p

Vedi sub art. 336.

Consumazione e tentativo

Valgono le osservazioni già fatte per il reato di cui all'art. 336. Con riferimento all'art. 337, si è già detto che non si tratta di un reato di pericolo presunto e, quindi, la fattispecie concreta non è realizzata con la mera possibilità di una condotta violenta o minacciosa. Questa deve essere reale ed effettivamente in grado di incidere sull'agire del pubblico ufficiale, in tal modo esprimendosi il finalismo lesivo (dolo specifico del soggetto agente).

Quindi, per ipotizzare che si sia realizzato il tentativo punibile, è necessario un avanzato sviluppo della azione per il raggiungimento della soglia della univocità degli atti (Cass. VI, n. 45868/2012).

Forme di manifestazione

Nel reato in esame il fatto che la condotta possa essere anche solo un “ostacolo” al compimento dell'atto di ufficio, comporta che non è necessaria una vera e propria violenza (o anche minaccia) ma è sufficiente anche una condotta che rientri in un ampio ambito di impedimento in concreto, sino ai limiti, che dopo meglio si chiariscono, della resistenza passiva.

Quindi la materialità del delitto è integrata anche dalla violenza impropria la quale, pur non concretandosi in un'immediata aggressione del soggetto passivo, si riverbera negativamente sull'esercizio della funzione pubblica, impedendola o semplicemente ostacolandola, come si vedrà nel caso della fuga con guida pericolosa, nonché della mera violenza sulle cose quando sia finalizzata — ed idonea — a ostacolare il compimento dell'atto del pubblico ufficiale. Allo stesso modo, la condotta di ostacolo può derivare dalla violenza, o minaccia di violenza, verso terzi (Cass.VI, n. 11559/2009), da minacce implicite e, anche, da una “ingiuria minacciosa” (quale opposto di quella “minaccia ingiuriosa” che, si è detto, non integra il reato) come nel caso di una condotta ingiuriosa che dimostri la volontà (purché sia anche idonea) di opporsi allo svolgimento dell'atto di ufficio (Cass. VI, n. 1737/2012).

Resistenza passiva

La “resistenza passiva” resta fuori dalla condotta integrante reato quando si risolva in una mera disobbedienza o resistenza opposta con una condotta meramente passiva (Cass. VI. n. 37352/2008) pur potendosi ammettere, e ritenere non punibile, una minima reazione spontanea ed istintiva al compimento dell'atto del pubblico ufficiale (Cass. V, n. 8379/2013); come tipica ipotesi vi rientra il mero divincolarsi posto in essere da un soggetto fermato dalla polizia giudiziaria per sottrarsi al controllo con un uso moderato di violenza, insito nel sottrarsi al blocco fisico posto in essere dal pubblico ufficiale, ma non diretta contro di lui (Cass. VI, n. 10136/2012): nella casistica si offriranno altri e più specifici esempi.

Il limite della resistenza passiva non punibile non è, quindi, la totale assenza di pressione fisica ma (nel frequente caso della opposizione all'arresto) che questa non rappresenti un vero e proprio impiego di forza diretta a neutralizzare l'azione dell'operante ed a sottrarsi alla sua presa, guadagnando la fuga (Cass. VI, n. 8997/2010)

Concorso morale

Questo è un tema significativo per la frequente casistica di condotte collettive, nel corso di manifestazioni etc., contro le forze dell'ordine, in cui sono sfumate le responsabilità individuali e il concorso di parte dei rei non è attuato con una condotta positiva e specifica ma contribuendo la forza del gruppo, anche in termini di reciproca determinazione, a consentire che si realizzi l'obiettività del reato. Nella casistica, invero, si confondono casi di vero concorso morale a casi di concorso materiale con azioni accessorie rispetto a coloro che compiono le azioni tipiche.

La giurisprudenza, nell'affrontare l'ovvia ampia casistica, ha così individuato quale sia la manifestazione rilevante di concorso morale nel reato di resistenza. Tale è, quindi, il contegno di chi, assistendo al compimento di resistenza attiva esercitata da altra persona con la quale partecipa alla comune manifestazione, non solo non intervenga per fermarne l'azione offensiva, ma la rafforzi o ne amplifichi l'effetto mettendo in discussione l'operato delle forze dell'ordine o pronunciando espressioni intimidatorie nei loro confronti (Cass. VI, n. 13160/2020; Cass. VI, n. 18485/2012). Allo stesso modo si è ritenuto responsabile colui che, in occasione di un incontro di calcio, pur non essendo stato visto partecipare al lancio di corpi contundenti, si era associato al gruppo dei tifosi contrastando ripetutamente i pubblici ufficiali, fronteggiandoli in maniera ostile e poi allontanandosi velocemente, con un atteggiamento che dunque rafforzava il proposito di coloro che lanciavano pietre e altri oggetti contundenti (Cass. VI, n. 33844/2014). Simile conclusione anche nel caso in cui taluni partecipanti ad una manifestazione sindacale avevano tentato di forzare un blocco di polizia creato all'ingresso di un ente pubblico (Cass. VI, n. 40504/2009).

Unità e pluralità di reati

Legato al tema della frequenza di resistenze “collettive”, sia quando gli operanti siano forze dell'ordine in formazione che quando si tratti del caso di più ufficiali che compiano congiuntamente l'attività di ufficio, è il tema se si realizzino tanti reati quali siano gli ufficiali operanti o se, almeno a date condizioni, la condotta sostanzialmente unica comporti che il reato sia unico. Si tratta di questione che si pone in termini sostanzialmente identici per i reati di cui all'art. 336 e all'art. 337.

Le Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 40981/2018) hanno superando il contrasto su tale questione,  affermando che la condotta di violenza o minaccia adoperate in un medesimo contesto per opporsi a più pubblici ufficiali integra tanti reati di resistenza, unificabili in concorso formale, quanti sono i soggetti operanti: l’azione delittuosa si risolve in altrettante e distinte offese al libero espletamento dell’attività da parte di ciascun pubblico ufficiale. Per quanto il soggetto offeso sia la pubblica amministrazione, va considerato che questa agisce per mezzo di persone fisiche, ciascuna delle quali conserva una distinta identità (Cass. VI, n. 52725/2017).  

Causa di non punibilità

È applicabile la causa di non punibilità di cui all'art. 393-bis (reazione ad atti arbitrari).

Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto

L’art. 131-bis non consente di escludere la punibilità in quanto “l’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità”  nel caso di reati di cui agli artt. 336, 337 e 341-bis commessi contro  ufficiali e agenti di pubblica sicurezza o polizia giudiziaria nell'esercizio delle proprie funzioni.

Casistica

Ampia la casistica, da leggere unitamente a quella dell’art. 336, per esservi molte situazioni comuni.

Innanzitutto vi sono i casi che rientrano, o meno, nella già definita resistenza passiva, in particolare la condotta del “divincolarsi”; ampliando la descrizione già fatta, questa condotta è una mera resistenza non punibile se sia reazione spontanea e istintiva senza finalità (di fuga), implicando un uso moderato della violenza, soprattutto se non è diretta contro i pubblici ufficiali (Cass. n. 10136/2012). È, invece, resistenza quando consista in un impiego di forza diretta contro il pubblico ufficiale al fine di sottrarsi alla presa riguadagnando la condizione di libertà) (Cass. VI,  n. 36214/2013).

Seguono poi una serie di condotte varie, in cui il tema è individuare la reale finalità dell'azione a fronte della più sfumata condotta di “ostacolare” rispetto al coartare che deve accompagnare la violenza/minaccia dell'art. 336.

Integra resistenza lo strappare un verbale di contravvenzione che, pur legittimamente, ci si è rifiutati di sottoscrivere, in quanto in tale modo è impedito il regolare compimento dell'atto di ufficio (Cass. VI, n. 8151/2012). Dinanzi alla richiesta di consegnare alcuni oggetti, costituisce minaccia la frase di un detenuto diretta agli agenti penitenziari “se avete coraggio entrate in cella e prendeteveli con la forza” (Cass. VI,  n. 24058/2014).

Non sempre facile la distinzione tra reato e non reato per condotte minatorie riferite all'autoattribuzione di forza particolare nei rapporti sociali. Si è affermato che costituisce minaccia anche l'affermazione di voler denunziare il pubblico ufficiale quando questa affermazione non si limiti alla mera prospettazione dell'atto ma alluda a una ritorsione punitiva grazie anche a presunte importanti conoscenze vantate dall'imputato (Cass. VI,  n. 22279/2012); si è invece escluso che ricorra il reato, perché forma di contestazione dell'atto e non opposizione, l'affermazione «sono fratello di un avvocato, posso farvi passare dei guai e ve la farò pagare tanto mio fratello è un avvocato» (Cass. VI, n. 31544/2009).

Altri vari casi: Non integra il reato la generica “ingiuria minacciosa” del detenuto che, reagendo ad un rimprovero rivoltogli da una guardia penitenziaria, inveiva nei suoi confronti minacciandola di "spaccarle la testa" (Cass. VI, n. 22453/2009). È resistenza, integrando una «barriera umana», la condotta di chi si frapponga fisicamente tra forze dell'ordine postesi all'inseguimento di un pregiudicato per catturarlo e quest'ultimo (Cass. V, n. 32906/2007). È minaccia rilevante lasciare volutamente sui luoghi oggetto di verifica cani ringhianti perché siano un ostacolo alle operazioni peritali (Cass. I, n. 10089/2006) ovvero lasciare un cane di grossa taglia e ringhiante, chiuso nell'abitacolo, per impedire al conducente del carro-attrezzi di procedere alla rimozione del veicolo (Cass. VI, n. 8493/2000).

Fuga con guida pericolosa

È frequente anche la casistica di chi, con un veicolo, volontariamente crei una situazione di generale pericolo (Cass. II, n. 44860/2019) potenzialmente idonea a costringere gli inseguitori a desistere dall'azione per evitare il pericolo di danni materiali e alle persone. Il discrimine del reato è quello del non limitarsi la parte a cercare di sottrarsi all'inseguimento, ma ponendo deliberatamente in pericolo, con una condotta di guida obiettivamente pericolosa, l'incolumità personale degli agenti inseguitori o degli altri utenti della strada (Cass. VI, n. 40/2013). Tra i vari casi concreti, costituisce minaccia la scelta di non arrestare il veicolo all'intimazione di fermarsi di un pubblico ufficiale quando quest'ultimo si trovi sulla traiettoria del mezzo, in modo da essere travolto laddove non si sposti (Cass. VI, n. 46200/2013) nonché l'effettuazione di specifiche manovre finalizzate a impedire l'inseguimento inducendo l'inseguitore a ritenere che ricorra un pericolo per la propria incolumità (Cass. VI, n. 28477/2012) od anche per terze persone.

Autolesionismo

Il reato può essere integrato anche dalla condotta autolesionistica dell'agente, quando la stessa sia finalizzata ad impedire o contrastare il compimento dell'atto ( Cass. VI, n. 42951/2016).  Un esempio è quello di colui che, richiesto di esibire documenti di identificazione dei quali era privo, si è procurato volontariamente lievi lesioni ad un braccio (Cass. VI,  n. 4929/2003).

Profili processuali

Il reato in esame è procedibile d'ufficio ed è di competenza del tribunale monocratico; è prevista la citazione diretta a giudizio. Nel caso di sussistenza dell' aggravante di cui all'art. 339, comma 2, la competenza è del tribunale in composizione collegiale (Cass. n. 1656/2012).

Per esso:

a) è possibile disporre le intercettazioni (art. 266, comma 1 lett. b, c.p.p.);

b) l'arresto in flagranza è consentito; il fermo non è consentito;

c) è consentita l'applicazione della custodia in carcere e delle altre misure cautelari personali.

Bibliografia

V. sub art. 336.

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